Omelia della nostra sorella Paola durante il triduo di S. Elisabetta
Ieri abbiamo ascoltato dalla sorella Giovanna l’aspetto storico della vita di sant’Elisabetta, ma anche della sua profonda ricchezza interiore da divenire un faro per l’umanità.
Ieri abbiamo ascoltato dalla sorella Giovanna l’aspetto storico della vita di sant’Elisabetta, ma anche della sua profonda ricchezza interiore da divenire un faro per l’umanità.
E’ stata la prima santa
francescana canonizzata, forgiata nella fucina evangelica di Francesco, ma di
questo sentiremo parlare domani.
Nell’enciclica Deus caritas est, di Benedetto XVI si legge: Abbiamo creduto
all’amore di Dio, così Santa Elisabetta credette profondamente in questo amore.
Nella vita di santa Elisabetta si
manifestano atteggiamenti che rispecchiano letteralmente il Vangelo di Gesù
Cristo.
Ella cercò la sequela radicale di
Cristo, secondo l’autentico stile di vita di Francesco. Il suo fu un impegnativo
cammino di conversione, tutto orientato dall’amore di Cristo. In questo cammino Elisabetta sentì come via
privilegiata la povertà.
Rifiutò le apparenze e le
ambizioni del mondo, il fasto della corte, le comodità, le ricchezze e gli
abiti di lusso. Scese dal suo castello e mise la sua tenda tra gli emarginati,
i feriti della vita, per servirli. Ella fu dimentica di se stessa fino a
rendersi prossima a tutti i bisognosi, scoprì la presenza di Gesù nei poveri,
negli emarginati della società, negli affamati e nei malati (Mt 25). Profuse
tutta l’energia della sua vita per vivere la misericordia di Dio Amore e nel
farla presente in mezzo ai poveri.
Elisabetta visse in pienezza il
Vangelo della carità, della misericordia, dell’amore, nel secolo, nel mondo.
Per lei vivere il Vangelo fu
imitare gioiosamente Cristo povero e crocifisso, imitare in quel “farsi poveri”
per farsi prossimo, per farsi fratello.
Si sentì come Francesco chiamata
alla povertà dalla povertà di Cristo che “da ricco che era si è fatto povero
per noi”. Come Francesco assunse la povertà,
perché in Cristo la povertà è rivelata a noi come via di salvezza per tutta
l’umanità.
Ella, che già era ben predisposta
spiritualmente, crebbe ancora di più
secondo l’esempio di Francesco che chiama a vivere “senza nulla di proprio”,
riconoscendo che ogni bene è proprietà di Dio e noi stessi siamo di Dio. Vivere
“senza nulla di proprio” significa vivere non ponendo se stessi al centro della
propria vita, ma ponendo Dio al centro e il suo mistero di amore, che ci rende
figli e ci rende fratelli.
E lo sforzo costante di Francesco
è quello di restituire tutto a Dio, di non trattenere per sé, condividendo con
i fratelli, per riconoscere così in tutti la regalità di Dio e la paternità di
Dio.
Elisabetta visse e concretizzò il
Vangelo nella sua condizione di donna, di laica, di regina, di sposa, di madre,
unendo insieme contemplazione e azione; nella fedeltà più piena alla propria
posizione, alla propria condizione nel mondo, perché questa condizione faceva
parte del dono di Dio, era grazia di Dio, possibilità di rimando a Lui, condizione per
amministrare e far fruttificare il talento dell’amore di Dio nel mondo, era
terreno in cui seminare il bene e volgere il cuore dell’uomo alla misericordia
di Dio.
Elisabetta si fece povera nella
vita matrimoniale, ricercando sempre insieme al suo sposo, Ludovico di
Turingia, la volontà di Dio.
Elisabetta si fece povera
assumendo un movimento continuo di attenzione e di cura, di vigilanza
evangelica, verso il proprio ambiente, la propria realtà. Animata dall’amore di
Cristo, non esitò ad andare tra i poveri, a vedere con i propri occhi la loro
condizione per comprenderla e farsene carico. Non esitò a compromettersi, a
mettersi in campo per potersi prendere cura dei più deboli, di quelli che
nessuno cura. Non esitò a cercare di farsi voce; non esitò a lenire in ogni
modo possibile quella miseria, se non altro con la sua presenza, con la sua
vicinanza. Non esitò a sentirsi familiare ai poveri, allargando i confini della
propria famiglia, si fece tutto a tutti, madre di tutti.
Si è dunque ben lontani da
qualche elargizione di denaro (anche se su questo piano Elisabetta arrivò a
donare tutto quello che aveva e alla fine della sua vita disse: “Tutto ciò che
c’è, appartiene ai poveri”). Siamo in presenza di un “farsi poveri” che diventa
autentica prossimità, custodia della dignità dell’uomo, nell’esercizio di una
misericordia che riesce a “restituire” al povero, con i beni materiali, anche
l’amore divino.
Elisabetta si fece madre di tutti
per condividere con tutti la buona notizia di un Padre che ci ama e che ci
vuole tutti suoi figli. E quando ormai non più regina, cacciata dal castello,
poté disporre pienamente di se stessa, arrivò ad accogliere come figli i
malati, sentendoli come il dono più prezioso del Signore, sentendo tutta la
gioia di potere in loro “lavare il Signore”, accudire le membra del Signore.
Elisabetta si fece povera, anche nel tempo della corte, attraverso il lavoro,
lavorando con le proprie mani: filava, tesseva per i poveri, per i frati, e
così fino agli ultimi tempi della sua vita; costruì il primo ospedale come
laica per soccorrere i malati, i pellegrini, i diseredati.
La sua carità non si limitò
all’azione immediata, ma si fece provvidente, dando a ciascuno non solo il
necessario per sopravvivere, ma anche gli strumenti per poter lavorare. Restituì
così dignità al povero, al più debole, additando a tutti la necessità di
partire dai più deboli, di tenere conto dei più deboli come fatto di civiltà.
La sua fraternità, il suo
continuo prodigarsi, è proprio per dilatare la misericordia di Dio nel mondo, è
proprio per assicurare una possibilità di accoglienza e di dignità a tutti, è
per essere tenda del Signore in mezzo ai poveri. Ci invita a non arroccarci
nelle sicurezze materiali o in una religiosità disincarnate, ma sta nello
spendersi fino all’ultimo momento della propria vita.
Elisabetta, nel suo cammino
perseverante di povertà per farsi tutto a tutti, ha rafforzato l’azione
missionaria di tutta la Chiesa ,
incarnando e diffondendo la spiritualità francescana come fermento di vita
evangelica nelle comuni occupazioni del mondo, ponendo il principio della
fraternità a fondamento del rapporto tra gli uomini
Elisabetta ci rimanda all’ordine
dell’amore di Cristo da seguire nella nostra vita. E quindi anche noi possiamo
dire e concretizzare le parole Abbiamo creduto all’amore di Dio: un amore donatoci
e offertoci con la vita e che possiamo restituire e rimandare a Dio attraverso
i fratelli, non solo con le opere materiali ma anche con la nostra presenza e
vicinanza.
Elisabetta ci richiama al senso
vero della giustizia che è un rendere onore al piano di amore di Dio per
l’umanità: un rendere onore che passa dalla nostra quotidianità, dal nostro
stile di vita, che deve essere attraversato anche oggi dalla sapienza della
povertà, ossia vivere senza nulla di proprio, se vogliamo che tutta la nostra
vita possa davvero farsi carità.
Elisabetta ci ridice che la
perfezione della carità è condivisione; questo è il senso della fraternità.
Portare la sapienza della povertà
nel nostro stato secolare diventa compito, missione, diventa la carità più
grande per l’umanità del nostro tempo: il non trattenere per noi la buona
notizia di un Dio che ci salva, che ci ha pensato e voluto come famiglia, di un
Dio che si fa nostra compagnia perché la nostra vita possa essere piena e
godere della sua beatitudine.
Nel fare memoria di S. Elisabetta,
imploriamo dal Signore per sua intercessione di renderci capaci di restituire
la grazia ricevuta. Spetta ora a noi, come ha fatto Elisabetta, di “portare
Cristo nel nostro cuore e nel nostro corpo … per partorirlo” oggi, restituendolo
con le opere sante che devono risplendere agli altri in esempio, fino
all’ultimo momento della nostra vita.
Pace e bene
Paola Di Girolamo, Ofs,
15 novembre 2013, in occasione del Triduo per S. Elisabetta
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