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domenica 18 novembre 2012

SANT'ELISABETTA, LAICA E SANTA: LA CHIAMATA UNIVERSALE ALLA SANTITA'


Omelia della nostra sorella Paola durante il triduo di S. Elisabetta

Nella Bolla di canonizzazione anno 1235, quando sant’Elisabetta fu proclamata santa, si legge:  “Siamo investiti da un turbine di stupore per i meriti della Santa, la quale visse povera di spirito, mite nella mente, deplorante i peccati propri e quelli altrui, sitibonda di giustizia, dedita alla misericordia, monda di cuore, veramente pacifica, …”
Sant’Elisabetta d’Ungheria incominciò presto a distinguersi in virtù e santità di vita.
Figlia, regina, sposa e madre di tre figli, nel tempo breve della sua vita   - soltanto 24 anni -   ha vissuto in modo intenso il suo rapporto con Dio e lo ha fatto coltivando la vita di preghiera e la vita attiva attraverso la cura dei bisognosi. Difatti, conobbe e amò Cristo nei poveri.
Il suo direttore spirituale Corrado da Marburgo ha raccontato che raramente  ha visto una donna così contemplativa come Elisabetta, che pure era dedita a molte attività. Quando ella usciva dalla sua preghiera privata, emanava dal volto un mirabile splendore e che dai suoi occhi uscivano come dei raggi di sole.
Sant’Elisabetta può essere considerata un vero gigante della fede, della speranza, della carità; che nella sua breve, ma intensa vita ci ha manifestato tutta la potenza dell’amore del Signore che ha reso fecondo ogni attimo della sua esistenza, e non solo per il suo tempo, ma per ogni tempo.
Una santità vissuta nella condizione di laica.
La sua testimonianza ci propone la vita cristiana come grazia, come dono di Dio, che viene elargita ai poveri di spirito, in un impegnativo cammino di conversione (“penitenza”), e traccia, in una interazione continua tra contemplazione e vita nel mondo, un avvincente percorso di carità per tanti uomini e donne chiamati a vivere lo spirito di Cristo nella quotidianità ed è un invito per tutti a vivere lo spirito di Francesco d’Assisi.
Sant’Elisabetta, nel suo cammino incessante per conformarsi a Cristo e farsi tutto a tutti, ha rafforzato l’azione missionaria della Chiesa, incarnando e diffondendo la spiritualità francescana come fermento di vita evangelica nelle comuni occupazioni del mondo, ponendo il principio della fraternità a fondamento del rapporto tra gli uomini.
Pur nella sua breve vita, e come donna, ha vissuto da protagonista nella sua epoca quanto il francescanesimo richiede in ordine allo stile di vita, alle relazioni familiari e interpersonali, alla riconciliazione tra le classi sociali, all’amministrazione dei beni, alla cura della “città”.
Così Sant’Elisabetta ha abbracciato la scelta di vita francescana,
sentendola propria vocazione, avvertendola come proprio modo di essere nel mondo.
Ella divenne terziaria francescana. In realtà, al tempo di Elisabetta non si  usava ancora il termine terziaria.  Ma c’erano  numerosi penitenti; molti uomini e donne del popolo seguivano la vita penitenziale indicata da san Francesco e diffusa dai suoi frati. Ed Elisabetta incarnò lo spirito penitenziale di san Francesco, ossia  abbandonare la vita mondana, praticare la preghiera, la mortificazione ed esercitarsi nelle opere di misericordia.
Entrò nell’Ordine della Penitenza quando era ancora in vita il marito Ludovico di Turingia; quando poi divenne vedova emise un ulteriore professione di fede: un Venerdì santo, quando gli altari erano spogli, poste la mani sull'altare in una cappella del suo castello, dove aveva accolto i Frati Minori, alla presenza di alcuni intimi, rinunziò alla propria volontà, a tutte le vanità del mondo e a tutto quello che nel vangelo il Salvatore ha consigliato di lasciare.
Così S. Elisabetta ha vissuto in pienezza il Vangelo della carità, della misericordia, dell’amore, nel secolo, nel mondo, e lo ha fatto nella sua condizione di regina, di sposa, di madre, poi vedova, ma comunque di donna laica, tra l’altro in un tempo  - quello medioevale -  dove l’onnipotenza del signore feudale era indiscussa.
Come san Francesco, Sant’Elisabetta si è sentita chiamata a vivere “senza nulla di proprio” e ciò significa vivere non ponendo se stessi al centro della propria vita, ma ponendo Dio al centro e il suo mistero di amore, che ci rende figli e ci rende fratelli, non trattenendo niente per sé ma restituendo a Dio ciò che ha dato e condividendolo con i fratelli.  
Ed Elisabetta ha fatto tutto questo nella sua condizione di laicità, nella fedeltà più piena alla propria posizione, alla propria condizione nel mondo, perché questa condizione fa parte del dono di Dio, è grazia di Dio, è terreno in cui seminare il bene e volgere il cuore dell’uomo alla misericordia di Dio.
Sant’Elisabetta si pone come esempio attuale per noi perché seguire le orme di Cristo non comporta per noi laici abbondanare tutto, nel senso di uscire dalla condizione di vita, di famiglia, dal proprio posto nella società. Al contrario si tratta di uscire invece da tutti gli egocentrismi che dominano la nostra vita: dalle ingiustizie, dall’indifferenza, dall’assuefazione (tutto ciò che rappresenta la vita animata dallo spirito della carne come ci ricorda s. Paolo) per assumere la propria condizione di vita nel mondo in modo nuovo, non da padroni ma da amministratori fedeli, a partire dalla propria quotidianità.
Elisabetta oggi ci ripropone la via francescana e ci ridice che la perfezione della carità non è una ascesi individualistica, ma è condivisione, condivisione piena: è uno “stare tra”, è uno “spezzare il pane con”, come Cristo è venuto a spezzare il pane con noi fino a farsi nostro “pane”.
S. Elisabetta ci ricorda che siamo chiamati a metterci in cammino; ci invita a convertire la ns. vita e ci esorta all’ordine dell’amore di Cristo da seguire nella ns. vita e a realizzare il piano d’amore di Dio per tutti noi e che passa dalla quotidianità della ns. esistenza  e dal nostro stile di vita.
Da qui la chiamata universale alla sanità.
La vocazione alla santità è per tutti ed ognuno dei cristiani. Tutti siamo chiamati alla santità e per tutti la santità è valore della propria vita e dunque realtà possibile e realizzabile nella propria vita.
Noi tutti in quanto laici e secolari perché inseriti nel mondo siamo chiamati a santificare il mondo creato rendendolo più cristiano nelle sue strutture e sistemi. Nella Costituzione apostolica Lumen Gentium (1964) è scritto:  
Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità.
E Giovanni Paolo II, nella Novo Millennio Inenunte (30) ha detto: “Tutti i fedeli di qualsiasi stato sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità”.

Ma prima ancora, Gesù stesso ci ha esortato: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro nei cieli” (Mt. 5, 48).
Ciò significa che donne e uomini laici, dunque, appartenenti ad ogni professione e alle diverse condizioni familiari, svolgendo il loro lavoro nel mondo con spirito cristiano, hanno ricevuto la vocazione di estendere il Regno di Dio.
Ogni cristiano, e dunque anche il laico, è chiamato alla piena sua santificazione, cioè alla più intima e profonda unione di vita possibile con Dio nel Cristo, perché santità è sempre e solo e per tutti partecipazione alla vita di Dio.
Il cammino della nostra santità laicale sarà il nostro "pellegrinare 
verso Dio nelle cose, nelle esperienze, nella storia di vita del ns. oggi, dell’ oggi ci occupa e preoccupa. Lo spazio della ns. santità è il "mio oggi".

Quindi il tempo della ia santità, è l'oggi.
L’oggi è il "tempo propizio", come dice s. Paolo(cfr. 2 Cor. 6, 2),  è il tempo di salvezza.

Il Santo è uno di noi che tuttavia non accetta di compromettersi con le ragioni secondarie del vivere: avere una famiglia felice, successo negli affari, gloria e affermazione nella società e in questa vita, o meglio non li accetta come se fossero le ragioni principali per le quali vale la pena di vivere. Il santo si spinge più lontano  - "duc in altum" –  e vive la vita e la morte e le esperienze tutte della sua vita orientandole a Dio.
Il Santo è l'uomo che si sente forte non per le proprie capacità, ma perché sa che tutti i suoi doni gli vengono da Dio.
Uno dei peccati più grandi della nostra cultura è proprio quello di staccare la fede dalla vita, il culto dalla vita. Non è possibile: il cristiano è cristiano sempre, non solo quando offre il culto a Dio, ma è cristiano nella vita di ogni giorno.
Siamo nell’anno della fede e il Papa, Benedetto XVI, ci invita a comprendere che il fondamento della fede cristiana è “l’incontro con un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Lettera enciclica Deus Caritas est n.1, cfr. Lett. Ap. “Porta fidei, introd.).
Questa è la conversione di vita da operare e realizzata da Sant’Elisabetta, che si pone come esempio per cambiare direzione alla ns. vita, per acquisire uno stile di vita nuovo orientato verso Dio.

Molte sono le figure di santi laici e di sante famiglie proclamate sante che nel loro vivere quotidiano sono diventati collaboratori di Dio.
Per rispondere alla chiamata alla santità che riguarda anche noi laici aiutano a riflettere le parole proprio di un santo laico (Attilio Giordani, cooperatore dell’Opera dei Salesiani, padre di famiglia, missionario, animatore dell’oratorio): ”la nostra fede deve essere vita”; “la misura del nostro credere si manifesta nel nostro essere”, soltanto così possiamo essere testimoni credibili e gioiosi del Signore che è morto e risorto per noi!

Ma il cammino alla santità appare un impegno così arduo e così grande di fronte  alla ns. pochezza, che richiede volontà e l’aiuto di Dio.
Così concludo con questa preghiera:
Prendimi come sono Signore,
prendimi come sono,
con i miei difetti,
con le mie mancanze,
ma fammi diventare come tu desideri.

Pace e Bene
Paola Di Girolamo, Ofs,
16 novembre 2012, in occasione del Triduo per S. Elisabetta 

SANT’ELISABETTA D’UNGHERIA TESTIMONE DELLA CARITA’


Omelia della nostra sorella Giovanna in occasione del triduo di S. Elisabetta

Innanzi tutto ringrazio P. Arsenio che anche questa volta dà a noi dell’ordine francescano secolare l’opportunità di parlarvi dei nostri Santi protettori ma soprattutto dei nostri esempi da seguire, come è appunto Santa Elisabetta d’ Ungheria  patrona dell’ ordine secolare.
Un anno fa sono stata invitata a parlarvi della santità di Elisabetta oggi ci soffermiamo sull’aspetto della carità.
La sua breve ma intensissima vita è piena di straordinari episodi, che mettono in luce come Elisabetta ha vissuto l’aspetto della carità, fatta di azioni e gesti appassionati tutti tesi, in ogni momento, in ogni situazione, in ogni condizione, a manifestare l’amore a Colui che per amore si è dato totalmente a noi. – tutto ciò che fa Elisabetta, lo fa PER AMORE DÌ GESU’ ed è questo che la rende santa.
Elisabetta nella sua giovane età ha un’idea molto moderna e innovativa del vivere la fede e del fare la carità; sicuramente anche scioccante nel tempo in cui viveva appunto nel medioevo.
Elisabetta è regina, e anche in questo vive ed attua un concetto di una regalità tutto nuova, è una regina che non si appropria dei beni, ma li condivide, è una regina che non si fa servire ma che si fa serva di tutti e in particolare degli ultimi, ed è, soprattutto una regina prostrata giorno e notte davanti all’unico vero re, che riconosce, il Signore Gesù, vive di Lui e si ciba di Lui e della sua Parola.
Credo che in questi momenti di meditazione la lettera di San Paolo ai Corinzi sia stato il suo pane quotidiano assimilandola fino in fondo, fino a diventare energia vitale mettendo in pratica quanto dice: (I Cor. 13,3-8)                                                                                                                                   “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità.  Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.  La carità non avrà mai fine.” 
La vita e l’ opera di Elisabetta e fondata su questo ed è pura testimonianza tutta avvolta nella carità che è Dio.
Ella mette in pratica questo credo, questa fede, sposando appieno e abbracciando con gioia il programma d’ amore che Francesco d’ Assisi  in quel tempo andava predicando. Incarna e interpreta  in maniera eccelsa il concetto dell’essere “fratelli e sorelle della penitenza” - Elisabetta è la primordiale francescana secolare, è la capostipite dei terziari francescani che ai suoi tempi si chiamavano appunto “ fratelli e sorelle della penitenza”- a cui ci chiama ancora oggi la Chiesa sulle orme di S. Francesco.-                                                                                                        Elisabetta vive pienamente nei fatti e ci indica come la via della penitenza e della conversione non è qualcosa di mortificante e di lugubre ma vivere la penitenza è per Elisabetta  soprattutto e innanzi tutto un programma d’ amore e di crescita nell’ amore – anche questo è un’ altro modo molto moderno del suo stile per come interpreta il concetto della penitenza e probabilmente anche scandaloso a quel tempo.-                                                                                                                      Sente forte in lei questa vocazione di essere pienamente calata nel tessuto sociale e di operare tra gli uomini con amore, misericordia e carità e lo fa per due motivi :
- crede che così si rinnovino i rapporti tra gli uomini e                                                                                       - si rinnovino si rafforzino i rapporti tra gli uomini e Dio.                                                                                           Questo è l’ annuncio salvifico che sente di dover portare.  – qui mi ricorda San Francesco “ va e ripara la mia Chiesa”-.
Altro aspetto importante e che Elisabetta non vive ed opera la carità con stile romantico e sdolcinato con la sua vita ci dice  che la felicità non sta nell’aggrapparsi alle sicurezze materiali o rifugiarsi in  una religiosità disincarnata, ma sta nello spendersi, nel compromettere la propria vita, nel mettere in gioco il talento ricevuto, la grazia ricevuta, e di farlo  tra gli uomini, con gli uomini, per gli uomini, fratelli che il Signore ci ha donato, e Lei lo  fa fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo momento della propria vita. - come ascolteremo tra qualche sera nel suo transito.-
La sua carità ha varie caratteristiche: si fa audace, ha senso di giustizia, va contro corrente, non si limita all’azione immediata. Si fa provvidente, educatrice, aiuta a crescere e ad alzare la testa, dando a ciascuno non solo il necessario per sopravvivere, ma anche gli strumenti, la dove è possibile, per lavorare e per affrontare il futuro. Restituisce così dignità al povero, al più debole, additando a tutti la necessità di partire dai più deboli, di tenere conto dei più deboli proprio come fatto di civiltà.                                                                                                                         Elisabetta cerca di curare e custodire ogni dignità negata, violata, calpestata, non ci sono limiti alla sua donazione, al suo impegno per il bene, perché la sua misura è la misura altissima, è quella della passione di Cristo crocefisso.
Quando ormai non più regina, cacciata dal castello e potrà disporre così pienamente di se stessa, arriverà ad accogliere come figli i malati più ripugnanti, sentendoli come il dono più prezioso del Signore, sentendo tutta la gioia di potere in loro “lavare il Signore”, accudire le sue membra. Questa è la grandissima forza delle opere di carità di Elisabetta.
Altra caratteristica della carità che opera Elisabetta è la concretezza costruisce il primo ospedale come laica per soccorrere i malati, i pellegrini, i diseredati, i poveri, dove lei stessa ogni giorno serve con le sue mani;                                  e ancora  altra caratterizza del la sua opera di carità è  il coraggio denunciando, addirittura con l’astensione dal cibo, tutto ciò che è opera di ladrocinio sui poveri, tutto ciò che è stato sottratto alla mensa dei poveri, mettendosi così ancora una volta dalla loro parte; e arriva come donna, a dare esempio di autorità come servizio al bene comune.
Elisabetta pur essendo così lontana nel tempo possiamo dire che è così attuale nei suoi insegnamenti ed esempi da seguire, come non interrogarci sulle situazioni in cui versa la nostra società e guardare a lei  che ci invita a mobilitarci per la pace e il bene , ci richiama al senso della giustizia dell’ onesta operando sempre con amore e per amore.

Pace e Bene
Giovanna Sindaco, Ofs,
15 novembre 2012, in occasione del Triduo per S. Elisabetta